Dopo la Svezia, anche l’Inghilterra ha espresso 274 sì per il riconoscimento dello Stato palestinese
“Questa decisione mina le possibilità di raggiungere una pace reale“, così il ministro degli esteri israeliano commenta il voto del parlamento inglese che, con 274 sì e solo 12 no, approva una mozione non vincolante con la quale si chiede al governo britannico di riconoscere la Palestina come stato. Un simbolo che mina la pace, secondo Israele. Non come la costruzione di 2610 nuove unità abitative in un quartiere di Gerusalemme Est, Givat Hamatos, che di simbolico non ha proprio niente.
È curioso notare come le parole del ministro degli esteri israeliano si rispecchino in quelle espresse in un comunicato dell’Unione Europea in reazione alla politica di insediamento israeliana: “Questo è un nuovo passo molto dannoso che mina la prospettiva di una soluzione a due stati e mette in dubbio l’impegno di Israele per una soluzione pacifica e negoziata con i palestinesi. Chiediamo al governo israeliano di cambiare strada urgentemente e porre fine alla sua politica di insediamenti a Gerusalemme est e nella Cisgiordania. L’Unione europea non riconoscerà alcun cambio rispetto ai confini prima del 1967, compreso per quanto riguarda Gerusalemme. Insistiamo nel dire che il futuro delle relazioni tra l’Ue e Israele dipenderanno dall’impegno di quest’ultimo ad andare verso una pace duratura basata su una soluzione a due Stati“.
La prima nazione europea a muovere un passo in questa direzione è stata la Svezia, il cui Premier ha riconosciuto che “Il conflitto tra Israele e Palestina può essere risolto solo con la soluzione a due Stati, negoziata secondo i dettami del diritto internazionale. Una soluzione a due Stati richiede il riconoscimento reciproco e la volontà di una convivenza pacifica. Per questo la Svezia riconosce lo Stato di Palestina”.
Questi due riconoscimenti fanno parte di una strategia diplomatica intrapresa dalla Palestina con la richiesta di adesione alle Nazioni Unite nel 2012, e ha tra gli obiettivi quello di ottenere, entro Novembre 2016, una notevole riduzione delle politiche di occupazione israeliane. Attualmente sono 135 (136 con la votazione simbolica di Londra) gli Stati nel mondo che riconoscono lo stato palestinese, di cui la Svezia è l’unica nazione appartenente all’Unione Europea ad aver mosso un passo in tale direzione, segno che l’incondizionato appoggio della comunità internazionale si sta irrimediabilmente incrinando. Queste azioni politiche, per quanto simboliche possano essere, sono un messaggio chiaro al governo israeliano e si uniscono e rafforzano il movimento di boicottaggio culturale, politico ed economico lanciato dalla società civile palestinese contro lo stato occupante. In questo quadro si colloca anche l’appello, sottoscritto da 500 antropologi italiani e internazionali, per un boicottaggio accademico dei colleghi e delle università israeliane nel quale si chiede che “non si collabori a progetti o eventi ospitati o finanziati da istituzioni accademiche israeliane, non si insegni o si partecipi a conferenze di tali istituzioni, e non si pubblichi in riviste accademiche basate in Israele”.
Nel frattempo, dall’altra parte del muro, le due massime forze in campo sono riuscite a ritrovare la tanto agognata intesa sancita a giugno, prima dei 50 giorni di guerra a Gaza. Secondo l’esponente di Fatah, Azzam Ahmed, l’accordo dovrebbe consistere in una serie di misure concrete volte a consentire all’Autorità Nazionale Palestinese di assumere il controllo della Striscia con un governo di unità nazionale, di unire la gestione burocratica di Gaza e Cisgiordania sotto un’unica amministrazione e di occuparsi della ricostruzione della Striscia. Ciò consentirebbe anche alle forze di sicurezza palestinesi, da tempo sottomesse ai dettami dell’esercito israeliano, di prendere il controllo del valico di Rafah.
Nonostante quest’unione di intenti, nella Striscia è ancora forte il risentimento nei confronti di Abu Mazen per la sostanziale assenza di solidarietà nazionale durante l’operazione Margine Protettivo. Dall’accordo, inoltre, rimangono fuori alcune questioni cruciali come la questione dei 45.000 impiegati di Hamas in attesa di stipendio e lo smantellamento, fortemente richiesto da Israele, dell’apparato di sicurezza di Hamas.
Mentre l’unione palestinese arranca come sempre, la novità arriva dal sempre più pressante e pesante isolamento internazionale di Israele, di cui la campagna di boicottaggio rappresenta solo uno degli strumenti, e di cui Svezia e Inghilterra sembrano essere solo i primi tasselli caduti in un pericoloso quanto atteso effetto domino.